La gioiosa domenica del supermercato.


Sono le due e un quarto di una calda e soleggiata domenica d’inizio novembre, una passeggiata nella riviera ligure, o un pranzo con gli amici in una trattoria di campagna sono gli unici posti al mondo dove chiunque in un ricordo d’estate come questo vorrebbe essere e sicuramente c’è, ma io no.

Io sono al megasupermercato di quartiere a fare incetta di beni di prima necessità che non ho avuto tempo di comprare in settimana. E non mi riferisco a leccornie, birre, patatine o porcherie. Sto seleizionando patate, carote, shampoo, sapone e suvvia, dopo nove anni mi regalo un nuovo rasoio bilama, quello con la batteria che sembra un vibratore.

L’atmosfera, in quest’area dal clima primaverile è un paesaggio assettico, la location di un film di Kubrick, ci sono soltanto io, qualche sfortunato dipendente costretto a lavorare questa domenica di sole che riordina scaffali e non degna di uno sguardo e le miriadi di prodotti che da ogni scaffale sembrano chiamarmi, quasi avessero le braccia e ti tirassero a loro.

supermercati

In lontananza, nel reparto dei dolci, dei paciughi chimici, delle torte al plutonio, scorgo una coppia di mezza età dalla stazza robusta che disquisisce sulla selezione di alcuni pacchetti dai colori vivaci e credo siano quelle torte di panna sintetica, ma loro sono davvero lontani, non so se ci incontreremo alla cassa. Posso davvero dire di essere solo.

Non ho mai fatto la spesa con calma, non ho mai avuto tempo di leggere nei pacchetti dei prodotti le scadenze, gli ingredienti, le composizioni, cioè, sto mentendo, l’ho sempre fatto, sono sempre stato molto attento ma da qualche anno ho perso questo garbato e gentile modus operandi di fare la spesa.

I reparti quando sei solo sembrano più grandi, non hai la pressione di qualcuno che ti passa davanti un braccio peloso per afferrare la scatoletta davanti a te, l’odore di ascella in umido a cottura lenta su maglia acrilica 100% da 1,99 euro al mercato rionale di quello a fianco che ha scelto l’articolo all’ultimo piano dello scaffale e alita scorreggie per la fatica a dodcici centimetri dal tuo setto nasale e le urla dei bambini che giocano al gioco delle scivolate tra i reparti sbattendo sul tuo misero cestino da single e i cori da “Esorcista” della mamma che spingendo un carrello talmente carico che sembra un muletto del VTE li redarguisce e ti guarda male perché il tuo misero cestino da pezzente ha sbattuto sulle loro caviglie mentre correvano e pretende di passarti sopra con il suo carico di merci.

Ecco tutto questo inferno che dimostra l’elevata importanza dell’evoluzione della specie umana non c’è, ma ci sei tu. Tu e basta, Tu che per scegliere le patate ti infili il guanto di plastica e con calma le scannerizzi una a una per scegliere le migliori, così fai con le carote, poi, quando hai ponderato che la quantità è quella giusta per andare avanti una decina di giorni, molto lentamente, sfili il guanto di plastica e con la tua manina che ora puzza come i piedi di Walker Texas Ranger quando si toglie i camperos, ti guardi intorno per scrutare con calma se in quell’area possa davvero esserci qualcosa che potrebbe essere ancora necessario e vai avanti. Molto lentamente intendiamoci.

L’orgasmo giunge al momento di arrivare alla cassa e non credere ai propri occhi che esiste davvero uno spazio aperto e non ci sono quelle serpentine di gente mischiata a random in tre code di casse differenti e dove non capisci mai quale sia non solo la più veloce, ma la reale parvenza di una coda, visto che a un metro e mezzo dal banco a tapin roulin ci sono scaffali fatti a pposta per non lasciare spazio alla gente di disporsi in fila indiana in attesa del proprio turno, ma anzi, studiati apposta per mischiare la gente come il mazzo di carte di un baro.

La cassa, questo traguardo così inarrivabile è stato uno dei momenti che mi sono goduto con la giusta calma, studiavo bene i prodotti da me selezionati mentre la cassiera li scansionava nel lettore e il mio ego aveva persino il tempo di gonfiarsi e complimentarsi per la scelta e laddove al solito chiedo a caso una busta e comprimo al massimo pentendomi di non averne chiesta un’altra, in questa domenica di ponderate scelte mi sono regalato la gioia di chiederne tre e con molta calma e minuzia ho adagiato la mia spesa al loro interno, quasi fossero vestiti pregiati da chiudere in valigia, ho dato uno sguardo all’annoiato guardiano giurato nella speranza mi fermasse per un controllo, per far godere al meglio il mio ego l’onestà che mi contraddistingue e forse per parlare un po con qualcuno, ma niente, si è girato dall’altra parte, ho così varcato le porte scorrevoli, respirando questo pofumo d’aria primaverile, nell’immenso e vuoto parcheggio di un megasupermercato di quartiere baciato da un tiepido sole di inizio novembre.

Le mie settimane negli ultimi mesi sono interamente vissute nel miglior modo per concludere a breve in una violenta depressione suicidale, lavoro dal lunedi al sabato, non ho rapporti sociali, la pausa pranzo la passo sui social a leggere le porcherie che scrive la gente, la sera quando chiudo negozio bevo come un dannato per defaticare il nervoso e poi, se non ho vomitato l’alcool mi faccio un brodino e vado a letto, quando vomito invece vado a letto senza brodino.

Per questo motivo la mia esperienza delle due e un quarto al megasupermercato di una calda e soleggiata domenica di inizio novembre è stata la cosa più entusiasmante, eccitante, costruttiva e viva che abbia fatto questa settimana.

Martino Serra

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Scrivo di getto e non rileggo.
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